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Una volta ho preso un treno per amore.
Ferma in posti dove non mi conosce nessuno - Antonio Giardi
E poi all'improvviso una fotografia. Ah, no, è un disegno. Ritrae una camera da letto sfatta, uno specchio scheggiato, una luce piena, il riflesso di un raggio di sole attraverso le tapparelle socchiuse e un'ombra sul tappeto, rivelatrice di odori, sapori, viscere e umori. Quel letto custode di chissà quali segreti si scopre ansioso di novità, di novelli vizi, mai pago, bisognoso di risvegli, orgoglioso del suo giaciglio. Mi son sentita accalappiata come una cagna in calore, l'indiscrezione scovata sotto le coltri pesanti, scivolata in mezzo a lenzuola umide. Inutile meditare vendetta. Non c'è rabbia che la tenga. Nessuna fermata che non sia breve, come un singulto amoroso o il tremolio della sua voce quando le hai detto che non ti rivedrà più e lei altalena tra l'orgogliosa delusione e la consapevolezza che più non avrebbe potuto essere. Se lo riguardo capisco. Non era una camera da letto, era lo scompartimento dimenticato di una memoria persa per quanto riavviata a intervalli regolari, un brano strappato dalla fitta nebbia fatto di note incerte suonate da un piano scordato e che non vuole essere terminato. Anzi si sdoppia in mille riverberi fino a raggiungere l'ultimo finestrino posto in coda, quello dal quale si vedono scorrere i binari, linee elettroniche che non riescono a compiere il necessario commiato, a concedere il meritato riposo.
Sempre legata poco alla mia terra, desiderosa di godere di altri paesaggi, sognante e terribilmente instabile rimango cementata a questa scrittura solida, rugosa, sottile e potente in due parole. Il personaggio mi somiglia molto: pochi amici di quell'amicizia sfuggente e nebbiosa, così fitta che non riusciresti a riconoscere tua madre a pochi passi di distanza. Così si scrive una vita: come per descrivere un fiume che scorre, deviato, libero, fluente, trattenuto, contenuto, impetuoso, qualche imprevisto, tracce di gioia, presenza di dolore. Esistenza inesistente, isolamento cronico, consistenza impercettibile. E' la vicenda normale di una persona normale che chiunque dopo le prime pagine vorrebbe metter via, imprecare contro il libraio che gliel'ha venduto e cercar subito il romanzo d'avventura, avvincente e morboso. No. Non accade. Ne sono rimasta affascinata, presa, incollata; ne sento ancora il sapore, perché sembra che ne sia rimasta parte intrappolata sul palato, per quanto lavi e spazzoli, è lì, tangibile, incisiva. E' proprio vero. La semplicità ha rilievo, scivola ma scava, e soprattutto pulisce e netta. Il senso della vita di un uomo questi, per quanto lo cerchi o lo ignori, lo trova comunque in un tono, in un particolare corso della storia scritto con accuratezza e rigore. Per me è il disegno, per lui è la letteratura. Parti interscambiabili, per un attimo, vedo il suo disegno preciso, leggo e narro. Fermezza e forza di una pietra che racconta di una vita, di un uomo in una terra dura e secca.
lettura di Stoner - John Williams
Diciamo che la prendo male, diciamo pure che mi pongo nel modo sbagliato, e, a scanso di equivoci, ammettiamo che nel peggiore dei casi sia io quella errata, se volessimo essere precisi, scomposta e male allineata. Che diavolo vorreste che confessassi ancora? In questo momento manco di concentrazione e non riesco a far mente locale su quanto m'è accaduto negli ultimi mesi, tanto più che, nonostante sia brillantissima a provocare in bella posa, non trovo facile, ora, rendere interessante al mio mirino il soggetto inquadrato. Perde di senso utile, sfoca il fascino e si fa banale come qualsiasi pasto dopo che l'ho avuto là in bella mostra, scoperto, privo della cupola che lo teneva caldo e appetitoso, freddo, morto e nudo per troppo tempo.
Che sia intelligibile ai più era evidente ai più. Anche a me, ovvio, che non considero per nulla disdicevole la cosa, anzi... niente da fare... tutto da immaginare: fusione a freddo di materia calda con pensiero virtuale. Cosa ne produciamo? Un gioco perverso attraverso il quale provare a spiegare cosa manchi, aggrovigliato dentro peggio che un ammasso vorticoso di lombrichi, quelli che rimangono volentieri protetti da una coltre di terra e che non vengono fuori se non al nostro zappettare fastidioso nel tentativo, appunto, di aprire una via di fuga, di incanalare, di affrontare la vita, di sfidare la morte. Lo evito appositamente questo approccio esagitato. Perché scalare quella cima per raggiungere il picco di coscienza? Uno, poi, mica tutti.
Io scendo invece a far compagnia a quell'essere oscuro che m'allucina e degenera, assume forma espressiva autentica, frutto di una concezione visionaria, allo stesso tempo carne e macchina. I miei sono scatti verso il basso, mi fermo il tempo necessario a giacere, scorrere e strappare - attrarre, coinvolgere, tagliare. Mangio metafora ed allegoria. Ghiotta e parca in egual misura. Assuefatta dal piacere e per nulla viziata dalla forma idolo. Inutile iniziare la campagna disinfestante, non c'è pericolo di stanarlo e, ancor più, debellarlo.
'La gente si lamenta perché i miei romanzi non hanno intreccio. Ma un romanzo picaresco non ha intreccio. È semplicemente una successione di incidenti'.
Ah, alla fine muoio, due volte, centrata in pieno dalla mia disattenzione e dalla sottilissima ironia.
Passo de 'The naked lunch' di William S. Burroughs
Mi son presa tempo. Ben cinque anni. Silenzio. Oro con sfumature violente dalle fortunate e generosissime forme. Il lavoro è stato incessante, le fatiche grevi, ma le pause altrettanto lunghe alla ricerca di equilibri sempre più sottili, affilati, ma che tagliano nel profondo. Del resto ho imparato a far la barba. Sì, col rasoio a scatto e chi si sottopone al mio tocco risulta rilassato, riposato, s'affida a me… a me collo e guance, naso e zigomi e io mi fletto, mi insinuo, mi intono, punto e rado bene. Ho un'ambizione: scoprire cosa c'è sotto quel primo strato di pelo folto, poi sotto il secondo di peluria, e infine sotto il terzo, il più sofisticato, duro, pesante. La bravura sta nell'eleganza del taglio, nella leggerezza dell'addentrarsi… nella densità dei tuoi chiaroscuri, con i quali disegno il perimetro delle tue sensazioni e gioco con le mie. Trovo sempre il bandolo nel vortice dei ricordi, l'essenza della mia confusione. È quella in cui lavoro meglio, vivo bene e t'invito volentieri, a salire, per vedere la mia collezione di dischi scheggiati e cartoline ritagliate e incollate una sull'altra. Il suono dei vinili segnati è sensuale: urla di donna nel momento più intenso del piacere. Il colore e la forma dei puzzle di luoghi è grazia e ripiegamento su di sé: fumo di sigaretta nel post orgasmo. Sontuoso e prolungato respiro grazie al quale tutto ritrova, finalmente, la sua giusta dimensione… un nastro, il flusso. Infinito. Riavvolto capovolto l'otto
la vicenda che mi accingo a narrare mi è stata confidata, quasi per intero e nel più impensato dei modi, proprio nella forma qui proposta.. ripercorro con malcelato fastidio questi anni e questi stati d'animo. Perché mai definiti stati poi. Nel mio caso mai stabile, e assolutamente poco incline alla pazienza. Sono poco disposta ad ascoltare la persona che mi fa dono delle sue intime confidenze, non ho alcuna capacità di consiglio, perché persa io stessa in vortici e baratri, ma ho deciso di educarmi all'empatia, devo assolutamente eseguire questa difficile, impossibile manovra: amicizia. Credo fermamente che possa liberarmi da decenni di chiusura? Sono o no la personificazione della contraddizione? Son trapassata migliaia di volte smentendomi. Anche stavolta l'intreccio produrrà un risultato.. quale che sia: fallimento o riuscita. Priva di condizionamenti, basterà cogliere l'essenza di ogni singolo gesto, accompagnarne il passo, seguire il tempo.
passo tratto da L'impazienza del cuore - Stefan Zweig