venerdì 27 dicembre 2013

rivisitare



Quella volta non avrei mai voluto sfilarle.. Cosa sarà mai? Un intervallo, una pausa. Lo so, chiunque mi abbia chiesto una pausa di riflessione ha continuato a rimuginare per anni, ma da solo. E così è stato anche allora: quattro anni fa mi han chiesto di pensarci sù, di prendere una decisione. Lo vedo il riflesso, il pensiero inespresso. Sulla superficie tirata a lucido, nemmeno un alone, ho disegnato un grande baloon e in centro ho scritto io vado, non mi fermate. Mai un indugio? Grande, imponente, insuperabile, no. Piccolo, da perderci cinque minuti, sì. Le grandi decisioni han bisogno di meno tempo per essere stabilite e saranno decisive. Le piccole, dicono, ti fan perdere le notti. A me no. Ho smesso anche di non dormire, perché, in genere, quando calo le palpebre continuo a far piani, uno sull'altro, e all'indomani ho già il progetto. Gran bel lavoro, mi autocomplimento, brava. Le piccole, dicevo, son le più lunghe, ma il parto non dà i figli sperati: tanto dolore, poca soddisfazione, incisive per nulla. La mia produzione attuale è l'immagine sfocata  della mia infanzia. L'oggi dovrebbe essere il periodo di importanti rivolgimenti, di spettacolari conquiste e invece mi appare come la brutta copia di un disegno fatto tanti decenni fa. No, non l'ho conservato, ma sarebbe poco importante. Ricordo bene come l'ho iniziato e in che luogo ero nascosta con carta di giornale e pennelli. Lo stipite è stato compromesso per sempre, ma l'opera d'arte era stata compiuta. Non conoscevo il significato di decoupage, ma quello dello sguardo di mia mamma sì, eccome, e quello me lo sogno ancora. Tutto sembrava possibile, allora, anche che io convincessi i miei che quella era una prova. Facevo dei grandi inchini, giravolte immense, contorsioni impensabili, e il sorriso, sornione, le guance paonazze li facevan divertire... ora che so allungare il passo, toccare il ripiano più alto del mio braccio e del loro stesi, che potrei guardare dall'alto in basso, non vorrei altro che tornare a passi felpati all'angolo tra la cucina e la luminosa veranda e gridare forte, per vederli sobbalzare, per smuovere coscienze, scuotere animi sopiti, ringiovanire sentimenti, tirare rughe, rinfrescare facciate, illuminare passi, risollevare schiene, ritrovare nascondigli, scoprire quel suono in coda che in parte riassume, che tutto contempla, che nulla conclude. Potrebbe essere il fruscio di una carezza o il trillo di una risata: il dimesso tributo di un tempo reale o immaginario e l'istantanea intrufolata tra le pagine in movimento di un libro aperto, ciò che sei per una persona cara, o che ella è per te. Ah, come vorrei vederle sfilare...





venerdì 20 dicembre 2013

al mio dieci



Vorresti svegliarti, liberarti dall'immagine dell'Europa. Ma non è possibile.

Eppure è così facile, basta svegliarsi in una nazione in cui nessuno vede più, far credere loro di essere un predestinato, l'unico che sappia portarli verso la salvezza. Ma chissà, col passare del tempo, che non rivelino a te l'unico modo per scorgere la verità… ché modificare il corso degli eventi non è più così facile come sarebbe potuto sembrare tanti anni fa. Si scorgono sedimenti di coscienza civile e politica dappertutto che vanno a costituire il nucleo. Pare pronto ad esplodere in ogni momento e invece sonnecchia tranquillo in attesa che qualcuno trivelli deciso e intanto si da una bella verniciata di fresco, costretti a cambiare logo, tattica, lessico, facciata. La base freme e salta a ritmo degli slogan, sopravvive e macera e fa finta di furoreggiare. Si rimane sulla cresta dell'onda con alcune inevitabili cadute di tono, a galla con brevi sperimentazioni in apnea, più giù con più lunghe pause di disorientante esplorazione nei profondi recessi dell'animo, come sotto l'effetto di potente acido fino a rendersi conto che quella non è una vasca di deprivazione sensoriale, no. Inutile, nega, annega.

domenica 15 dicembre 2013

quando



C'è una grande lacuna da colmare e non dispongo di un grande e pesante bagaglio per poterlo fare. Bisognerebbe riscrivere gli eventi, documentarsi in profondità, andare a ripescare testimonianze ed esperienze e io non ho un ricco e vasto archivio per volerlo fare. Mi rimane la possibilità di riconoscere gli zombie che ancora popolano la mia nazione e quelle ad essa vicine, e quelle da essa distanti, guardarli in faccia, stringere loro le mani, il più delle volte idealmente, mai fisicamente, sostenerne l'andamento traballante e incerto, ascoltarne le storie, spesso già sapendo come vanno a finire, mai abbastanza preparata, sempre poco allenata allo squallore, alla violenza, alla resa. Le terre che calpestano sono insanguinate e scavate dalle ossa dei loro cari, le acque inquinate dalla putrefazione dei corpi abbandonati alle correnti, l'aria appestata dalla acidità della polvere da sparo. Le storie sono accomunate e legate dalla mancanza di vita, le linee interrotte dai gesti precisi, ancor più rallentate per fissare ancora una volta l'ultimo respiro, l'ultima presenza.