lunedì 28 novembre 2011

incunabula


Non voglio morire
non voglio imputridire nel verso
che il cadavere delle mie sere
non infastidisca il tuo mattino felice
Una voce lontana, rauca e distorta, come filtrata dal marciapiede che percorro, riverbera e s'insinua, si piazza accanto a me e con me continua a camminare. È un già visto. Intuisco, ma continuo indifferente, come se ignorandola possa sentir meno pungolo e dolore.
e il lume che la tua bocca accende forse con parole
-anche se nato dalla morte-
si sommi agli altri fuochi del giorno
ai frastuoni della casa e del viale
nel presente veloce
Credevo fosse semplice, bastava far finta di niente, e invece no, ora si affianca a quella un'altra, più stridula e fastidiosa, diventa percussione fino a forgiarsi in suono acido. È inutile cercare di esorcizzarla, non è essere immondo.
Nulla che rassomigli
a uccello impagliato mummia
di fiore
dentro il libro
È intelligenza. Ha bisogno di esser ascoltata e ravvivata, nutrita di gesti spontanei, animata da esperimenti e sacrificio, alimentata da libertà e scienza, prende fuoco subito e riscalda e rasserena.
e quel che dalla notte torni
torni in fiamme
o in piaghe
vertiginosamente come nel gelsomino
che in un lampo solo
illumina la città intera
Vive, è musica e rivoluzione, costruita su accordi e tempo, ritmiche e melodie impalpabili, si muovono e ascendono in trame sempre più rilassanti. Poi tornano a minacciar tempesta, portando desolazione. Non averne paura. Che duri tre minuti o un'ora, un giorno o settant'anni, che sviluppi fracasso o si moltiplichi in tanti scampoli d'improvviso silenzio, pur precipitando e squartando, sarà una chiusura unica, suggestiva, straniante. Polvere… cenere… aria.


i versi sono del poeta brasiliano Ferreira Gullar

mercoledì 23 novembre 2011

smarriti

Stiamo sprofondando. In mano lo scettro. Dito sul pulsante. Pigiamo più volte per farli fuori. No. Li stiamo solo scacciando l'intervallo breve per ritornare sul canale duecentosessantatre. Ritorno al futuro. Si parte. Metti insieme un po' di notizie ché le si spara nello spazio. Immagini e lettere. Articoli e inviti. Verifica. Significato. Pensa. Che impegno è? Non esprimiamo più nemmeno un buon proposito al mattino quando usciamo di casa. Quelli che seguono normalmente gli stravizi festivi. Paura. Diffidenza. Ipocrisia. Silenzio. Digiuniamo ed evitiamo di inferocirci. Ci sfilano davanti a orde e noi non proviamo nemmeno un tantinello di sana vergogna. Io non li capisco quando parlano. Cazzo ha detto quello? Immetto il modulo traduzione simultanea. Ah, ecco ha detto, ha osato dire che questo non è un paese buono. Dietro come sfondo c'è una baracca, un ammasso di stracci. Ma se siamo tanto ospitali. Braccare, catturare, metterli in gabbia. Son gabbie dorate. E scappano pure. Conciliamoci colla pelle nera del divano. Siamo ossessionati dalla fotografia di noi stessi. Ebbasta! Nessuno vuole rubarci nulla. Eliminiamo i dubbi, fissiamo le certezze. Troviamo il tempo per porci qualche domanda. Potremmo scovare, chissà, qualche ricordo e avere anche il coraggio di ringraziarli, loro che son fuggiti come nubi e come onde son approdati, increspando e piovendo e bagnando, l'arida e brulla terra nostra.



tutto ciò che nasce su questa terra ha questa terra…

venerdì 11 novembre 2011

una metà



La superficie è umida. Ha piovuto tanto e non è riuscito ad asciugarsi. È tutto impastato: sabbia, erba, dita, capelli, velo. La scrivo, la mia iniziale, ci riesco. Sarà l'introduzione, sarà il prologo, l'ultimo granello di interesse si sta perdendo dopo essersi aggrappato tenacemente nelle mie unghie e forse non terminerò nemmeno quel discorso intimo, l'autoanalisi, la consapevolezza che ci sia qualcosa che non va, non procede, non sfocia, non trova l'alveo suo naturale. Può accadere. Non si è tutti uguali.
C'è chi semplifica e chi deprime lo scoramento, chi perde la capacità d'amare e chi spalanca al delirio, affronta a viso aperto o segue con lo sguardo la linea lontana dell'orizzonte e a cuore in mano decide di chiudere, fermarsi e contemplare, appollaiata su una pila di sedie, le figure in movimento: la posizione privilegiata di chi sceneggia, dirige e assiste, suggerisce, legge e traduce le proprie sensazioni.
La mia opera, completata o no, s'è già resa nota, ermetica metafora, eredità di tante pagine che han messo a nudo e han vestito, il dono essenziale, il più apprezzato, il più saturo, il più appagante. Ne conservo l'impronta, ma l'ho già riciclato. Altri ne godranno più di me.
A me basta un distillato, che sia sincera essenza del dopo che già dipingo, del prima che è già accaduto, dell'ora che si emancipa dal comune, dall'abitudine di esagitare il proprio sapere e di esporlo su una mensola a prender polvere, dalla speranza che lo si apprezzi e lo si elogi e non lo si critichi… cosa morta da piangere e da seppellire. Incipit per nulla rassicurante. Chi crede di sapere s'irretisce delle proprie capacità di terminati, s'annoia e rimane immobile; chi sa di sapere si avventura tra i tableaux vivants e si perde nelle note e ignote, calpesta i frammenti, si slega dalle rigide strutture e vomita: l'apparenza mesta, il sorriso di circostanza, la vacuità dei rituali, le illusioni, le tradizioni, le costrizioni.
Il cumulo si dissolve alla luce di una lucidità estrema che si materializza, ingloba e precipita nel colore, si ciba di drammi quotidiani e nutre un unico quadro, passione pura, e come tale brucia, distrugge, ricrea.
A volte è facile essere me.