venerdì 28 settembre 2012

dell'aria che ti mantiene e le catene



Il mio volto mi fa paura, la maschera mi fa ancora più terrore. Finale straziante di favola sinistra. Diciamo che i miei occhi han sempre visto quei confini, ma li hanno sempre nascosti nei solchi, diventati cicatrici, chiare, indurite. Stratificate immagini sotto pelle. Un deposito che non ha valore ché spinto a sommarsi in maniera incoerente non fa che rendere più poveri, più soli, schiavi dell'immagine, vecchi nelle proprie fotografie, disgustosi nell'apparenza, sempre più lontani dalla realtà, sempre meno conformi alla forma… vera. I miei occhi non sono vetro: stupiti e separati dal corpo impagliato, si dibattono, vorrebbero scucirlo, venirne fuori. Simboli e segni potrebbero spavaldamente evidenziare la bruttezza, separarsi dalla confusione e venire a galla illuminando e muovendo l'originale visione. Ma quella foga diventa ossessione: che non si perda in movimenti inutili e, esaurito ed esausto, non si astragga ancor più, balbettante e poco funzionale, intimo, onanista discorso.

titolo da 'La piel que habito' di Pedro Almodovar
passo iniziale da 'Les yeux sans visage' di Georges Franju, 1959



in immagini sottospecie i Sallusti, le Porcherini

domenica 16 settembre 2012

interplay



Ben poca cosa, ben poca cosa. Rare occasioni di conoscenza son riuscite a creare uno stretto legame di appartenenza affettiva e profonda identificazione empatica come l'ultima capitatami: una di quelle esperienze che hai fatto tanto per evitare e poi, quasi per caso, sicuramente per volontà altrui, ti sciolgono un nodo che sapevi di portare legato tra gola e nuca, ma che non avresti mai osato sperare che lo straniero sapesse cercare, trovare e districare. Il silenzio soffocato si sposta come un grumo indigeribile, si nutre e si incarna e poi esplode in un urlo amplificato e gracchio come solo attraverso un megafono potrebbe essere. Quel tramite è una sorpresa, un mezzo scovato, un sussurro agro, un consiglio dimenticato, sepolto sotto i cartoni dell'anima che l'anima non sposta non ordina perché non diventi chiaro e preciso il confine mai superato, da sempre evitato, accuratamente nascosto. Ma la linea del fuorigioco è ricomparsa, appena tratteggiata, ma è lì, e ci son finita di faccia, in bocca gesso, terra e sintetico, sputare fuori e rimettersi in gioco. Problema: dove attingere e quanto preservare. Due dubbi cristallizzati nella realtà in cui vivo e in essa talmente stratificati che non riuscirei a separarli nemmeno a picconate. Soluzione. Svestire i panni consueti e indossare la verità esistenziale libera dalle folle di maschere mistificanti e traditrici e dai conformismi facili e menzogneri. Non faccio altro che rivolgere fatwe deliranti ed elargire stoccate mordaci. Sembrano sortire nessun risultato, inconsistenti e deboli come la mia voglia di rintracciare l'ineluttabile ideale tragico e di ricucirlo in ennesima retorica illusione. Perenne insofferente che inchioda e schiaccia al muro le promesse non mantenute destinata a una esistenza scissa e incoerente, ma ribelle e combattuta, eternamente fuori luogo, vibrante ed estatica imperfezione, due entità che proseguono urtandosi, incrociandosi, scontrandosi, come uno sbuffo continuo e rumoroso, una danza impazzita improvvisata in mezzo alla moltitudine annoiata anonima fredda, impigliata nelle pieghe dell'indifferenza e chiusa nella pesante collezione dei simili, dei modelli. La strada è libera, han fatto effetto le partenze intelligenti e io mi incammino, o almeno così ricordo. Rimarrai sola. Lo sono già.

Non siamo che poveri peccatori, credo, e tutto ciò che abbiamo e tutto ciò che conosciamo e amiamo e ricordiamo è esposto alla polvere e alla ruggine.

J. Cheever 


foto Mira - Romeo and Juliet, William Shakespeare, By any other name theatre, University of East Anglia - Aia di Carlo Formigoni, settembre 2012