lunedì 26 dicembre 2011

respiro


Primavera non bussa lei entra sicura come il fumo lei penetra in ogni fessura.
Fabrizio De André Un chimico

Stappa, muoviti, ho sete! Sto rimuginando e da un po' anche. In questo sono in anticipo. Eh, non mi aspettavi. Pazienza. Non ci pensare troppo. Dovresti solo considerare l'onore della visita inaspettata. Apri. Rileggi. Sottolinea. La trovi a metà opera. Sta lì tratteggiata con cura, nota a lato, scarabocchiata a matita. È mia. Posso farci ciò che voglio. Ho smesso di dar conto. Finii per caracollare rovinosamente una volta che m'ero appoggiata troppo. Quello si scostò e mi lasciò per terra. Fu un attimo. Era un'immagine riflessa. Bastò un'incrinatura o uno screzio, dopotutto. Ma era comodo; ideale, ingenua, pigra, indolente io ho dovuto interessarmi, prendere informazioni, acquistare consapevolezza e a caro prezzo, purtroppo, ma l'autenticità è estranea, molto spesso, all'incanto e alla favola. Affiora, ne senti il profumo, la calpesti appena, ti sventola sul naso e ti colpisce impercettibilmente, avverti una puntura sottile e sanguini; tu la vorresti tenere lontana, è assurda, inconsueta, priva di privilegi… hai le dita livide a forza di afferrare, stringere, trattenere. Inutile. Questione di tempo. Potenza del cambio di stagione. E quella minaccia, esce, esonda, travolge. È arrivata. Ora la vedo in tutta la sua indisciplina, ruvida e incondizionata: piangere lacrime amare e vedersi sospinta in quelle verso lidi lontani a toccare e vivere terre straniere, e sentirsi rievocata in pomeriggi tiepidi ad errare per altri sentieri. Ora so farla vedere. È così che ho iniziato a scrivere… se avessi mai smesso.

Noi non appartenevamo a nessun luogo, a nessun paese, a nessuna classe, a nessuna professione, a nessuna generazione. Il nostro vero essere era altrove, esso aveva per confine l'eternità, e l'avvenire l'avrebbe rivelato: noi eravamo scrittori.
Simone De Beauvoir
L'età forte




la estendo anche agli illustratori…


primavera a dicembre? quando mi pare.. quanta ne sento.. dove voglio.. per chi ne ha

domenica 18 dicembre 2011

respingente


Scrivo, leggo, dipingo… e ricomincio daccapo. Non farmi complimenti. Ogni volta mi sento contorcere dentro, un intrico di rami e, peli, grandi come rami. Infilo le dita in gola ma non vien fuori nulla. Mi riempio di alcol, fumo per stravolgermi, sperpero ogni grammo della mia anima, ma niente, niente… e dipingo, leggo, scrivo. Sto uno schifo, altrimenti come vorresti chiamarlo? A me sembra uno scarabocchio. Perché non capisci un cazzo di arte. Potrà pur essere sconnesso, disturbato, profondamente devastato, ma è il mio: pensiero e segno. Permane e attraversa i fitti strati. A bordo, io, è un evento: gelo e vuoto insopportabile, atmosfera tesa a raggiungere vette impossibili e un salto nel buio denso, sempre più. In fondo, io, è un ricordo ed è il prossimo accordo, contrappunto necessario che m'introduce alla esplosione doppia. Una vita fa sarei stato felice e lei sarebbe stata soddisfatta di me. Fammi capire, non c'è un finale, non intravedo morale, non sento… mi penso sù; riscrivo: le dita viaggiano ormai attraverso la sabbia, urtano e trasudano solitudine. Viaggio senza limiti e con trasformazione. Pori e vesciche respirano, branchie improvvisate, epidermide trasparente, estremità palmate, abissi accoglienti. Sono ospite inatteso e scomodo ma questo è universo di suoni che non ammette confini, non vieta e non impedisce. Ci sto a meraviglia. Passo… Urgente rinascita, memoria appagante, infinito indefinito. Ci riesco. Scrivo e vomito. Leggo e mangio. Dipingo e mi vedo. Il mio pensiero come un vetro nel quale capovolgermi, riflesso e riverbero. In superficie infrango e ne tiro fuori solo un graffio. Ehi, maschera, ghigni? Dentro, io, è un ritorno ed è l'insegnamento, esagerazione ovvia, nuoto e giaccio nel mio mare d'inverno. IO, malato, risanato, patetico, spietato e folle… pronuncio il mio nome, dico io e subito evoco un personaggio in realtà tanto fantomatico-astratto-arbitrario quanto l'acqua si riconosce nel simbolo H2O piuttosto che sotto forma di grandine, torrente… ne venivi fuori e nascevi... auguri cara.
Jacques Rigaut Agenzia generale del suicidio

venerdì 16 dicembre 2011

pensiero stupendo

In questi primi giorni di freddo, nei quali la cosa migliore è scrivere o disegnare, schizzo su un foglio una folla in movimento, con cancellature e bagliori improvvisi, lingue di cammino distorte sui loro volti, calore di fiato fuso con ghiaccioli d'indifferenza. Ogni tanto mi fermo e parlo con loro. Qualcuno mi racconta la sua vita, io spiego che devo ancora terminarlo e ricomincia la corsa verso grandi magazzini, la metro e i tram, indico le fermate e i capolinea. Ce n'è uno che mi fa cenno di seguirlo. Io gli rispondo che ho capito, mi volto le spalle e prendo a camminare insieme a lui che mi ringrazia per la fiducia. Non è da tutti, dice, accogliere l'invito di un fumetto. Figurati, rispondo io, tratto a parte, mi sei venuto bene. Ci fermiamo un attimo sul marciapiede. Non passa nessun autobus, c'è un vigile, mentre continua a multare i furbastri parcheggiati sul marciapiede, con un guanto levato in alto chiama un taxi che inchioda proprio davanti ai nostri piedi. Lo prendiamo al volo. Nell'abitacolo, troppo caldo, troppo comodo, non parliamo, non ci scambiamo nemmeno uno sguardo. Comincio a sentirmi a disagio. Ma c'è la radio accesa: tanta musica, brani a ripetizione tra i quali riconosco una voce splendida di grande suggestione che ci trasporta in un'altra dimensione, ancora un'altra… disorientati, perdiamo ogni contatto con la realtà terrena. Io fluttuo fuori e dentro, in trance; lui, non distante da me, sul suo ginocchio sta continuando il mio disegno con matite colorate. Ne risulta un quadretto delizioso, metà in bianco-nero, metà a colori. E sul retro una piantina. La consegna al tassista. Vedo sfilare attraverso il finestrino del mio lato la moltitudine nelle strade. Sfumano, sfocano. Mi ritrovo tra le dita un pezzetto di foglio, del mio. M'ha lasciato una poesia. Non m'ero nemmeno accorta m'avesse sfiorata, né che mi avesse dato la mano.
E chissà, forse, era un clandestino.


Saluto

Io lascerò il mondo con furia.
Non importa quel che apparentemente succeda,
se dolcemente mi ritiro.
Di fatto in quel momento
si staranno strappando da me
radici così profonde
quanto questi cieli brasiliani.

In un frastuono di genti e venti forti
occhi che ho amato
volti amici pomeriggi ed estati vissute
staranno gridando
perché io resti.
Non piangerò.
Non c'è singhiozzo più grande che salutare la vita.

Ferreira Gullar

dal 1993, (Milano - Dicembre)

venerdì 9 dicembre 2011

vizio o virtù


Comincia in prurito, un oscuro bisogno, vitale e profondo, prosegue con un tic, e gran finale, realizzato e celebrato su grande schermo dei miei giorni e delle mie notti, il rito, si esalta tra due dita malate e oziose che afferrano quel frammento tragico e stringono, fino a soffocare corpo, carta, anima, ma non lasciano sfuggire nulla, nemmeno la cenere... la traggono dentro, la sospirano, la vedono salire fino a quella parete in alto, colorata d'azzurro macchiata di giallo ocra. Trascende sulla cupezza del materiale, sulla meschinità dell'umano il demone, fa voli notturni e dilania, si unisce con il delirio, preda e si nutre, sputando fuori decoro e cura. Il mistero è tutto qui. Ti serra l'umido pertugio, ti strizza fino a farti svenire, ti riempie e ti vuota come se fosse aria quella che succhia e rimani comunque attaccata e semi cosciente, ma viva, iniettato di veleno greve, ma vive. Continua in punta di lingua, in inglese per intenderci, traducibile in spagnolo, se preferisci; ha lo stesso senso di lettura, l'intonazione sale, si acuisce e si sviluppa in eroticissima spirale, suadente e strisciante, s'avvolge ai miei ricci ai quali ben s'intona. La chioma folta e confusa, rovinata all'indietro o intrecciata alle tue gambe, intrise dell'aroma di caffè appena fatto, amaro e forte, perché devo tenermi sveglia ad aspettare, per ricominciare... ancora e ancora. Grosso e sensibile, puntato come un'arma invincibile che offende e mai si difende. Perché dovrebbe? Niente di più piacevole che esser impugnato e manovrato a spalancare trame e percorrere tessuti, a svolgere e coinvolgere nella grandezza e nella pienezza, possente e impetuoso, l'intimo attraverso la superficie. Complicazione prevedibile la maschera di dolorosa passione fusa con la tua faccia. Ha preso fuoco insieme a me; brucia, arde, giace e viene ripreso, masticato e inumidito, sorretto e precipitato.
Ti è caduto il tabacco fratello, ti è caduto. Tu mi avevi detto che era acceso. Ma ti sei dimenticato di dirmi che il tuo tabacco ti è caduto.
Guillermo Cabrera Infante

lunedì 5 dicembre 2011

via da me

Io che guardo,
son rimasta contratta,
petto in subbuglio e testa fuori.
Abbagliata da quella vista, penso:
qui voglio stare, ogni altra terra mi annoia.

Digiuna da giorni, comincia a sentire i morsi, che poi
quanta carne l'è rimasta ancora?
Viso emaciato, mani inerti,
fuori soffia un arido scirocco,
vento che acceca, pesante e infido.

Io che sento,
m'aggrappo alla spalliera, davanti a me.
Mi alzo e m'allontano piano, son passati tredici mesi.
Tagliata in due dai suoi lamenti, dico:
qui devo stare, ogni altra casa mi respinge.

in sottofondo musica intangibile, metà fisica metà aeriforme, quinta e sesta traccia, passaggio da stato liquido a gassoso, attraversa, si sofferma a incidere, scolpire; lavorio… si modella.. prende forma.
Poi parlerà anche a voi. Lui ora è qui.


Ah! a questo punto potrei fingere o tacere; ma a che cosa mi serve questo racconto se non è più veritiero?

André Gide

lunedì 28 novembre 2011

incunabula


Non voglio morire
non voglio imputridire nel verso
che il cadavere delle mie sere
non infastidisca il tuo mattino felice
Una voce lontana, rauca e distorta, come filtrata dal marciapiede che percorro, riverbera e s'insinua, si piazza accanto a me e con me continua a camminare. È un già visto. Intuisco, ma continuo indifferente, come se ignorandola possa sentir meno pungolo e dolore.
e il lume che la tua bocca accende forse con parole
-anche se nato dalla morte-
si sommi agli altri fuochi del giorno
ai frastuoni della casa e del viale
nel presente veloce
Credevo fosse semplice, bastava far finta di niente, e invece no, ora si affianca a quella un'altra, più stridula e fastidiosa, diventa percussione fino a forgiarsi in suono acido. È inutile cercare di esorcizzarla, non è essere immondo.
Nulla che rassomigli
a uccello impagliato mummia
di fiore
dentro il libro
È intelligenza. Ha bisogno di esser ascoltata e ravvivata, nutrita di gesti spontanei, animata da esperimenti e sacrificio, alimentata da libertà e scienza, prende fuoco subito e riscalda e rasserena.
e quel che dalla notte torni
torni in fiamme
o in piaghe
vertiginosamente come nel gelsomino
che in un lampo solo
illumina la città intera
Vive, è musica e rivoluzione, costruita su accordi e tempo, ritmiche e melodie impalpabili, si muovono e ascendono in trame sempre più rilassanti. Poi tornano a minacciar tempesta, portando desolazione. Non averne paura. Che duri tre minuti o un'ora, un giorno o settant'anni, che sviluppi fracasso o si moltiplichi in tanti scampoli d'improvviso silenzio, pur precipitando e squartando, sarà una chiusura unica, suggestiva, straniante. Polvere… cenere… aria.


i versi sono del poeta brasiliano Ferreira Gullar

mercoledì 23 novembre 2011

smarriti

Stiamo sprofondando. In mano lo scettro. Dito sul pulsante. Pigiamo più volte per farli fuori. No. Li stiamo solo scacciando l'intervallo breve per ritornare sul canale duecentosessantatre. Ritorno al futuro. Si parte. Metti insieme un po' di notizie ché le si spara nello spazio. Immagini e lettere. Articoli e inviti. Verifica. Significato. Pensa. Che impegno è? Non esprimiamo più nemmeno un buon proposito al mattino quando usciamo di casa. Quelli che seguono normalmente gli stravizi festivi. Paura. Diffidenza. Ipocrisia. Silenzio. Digiuniamo ed evitiamo di inferocirci. Ci sfilano davanti a orde e noi non proviamo nemmeno un tantinello di sana vergogna. Io non li capisco quando parlano. Cazzo ha detto quello? Immetto il modulo traduzione simultanea. Ah, ecco ha detto, ha osato dire che questo non è un paese buono. Dietro come sfondo c'è una baracca, un ammasso di stracci. Ma se siamo tanto ospitali. Braccare, catturare, metterli in gabbia. Son gabbie dorate. E scappano pure. Conciliamoci colla pelle nera del divano. Siamo ossessionati dalla fotografia di noi stessi. Ebbasta! Nessuno vuole rubarci nulla. Eliminiamo i dubbi, fissiamo le certezze. Troviamo il tempo per porci qualche domanda. Potremmo scovare, chissà, qualche ricordo e avere anche il coraggio di ringraziarli, loro che son fuggiti come nubi e come onde son approdati, increspando e piovendo e bagnando, l'arida e brulla terra nostra.



tutto ciò che nasce su questa terra ha questa terra…

venerdì 11 novembre 2011

una metà



La superficie è umida. Ha piovuto tanto e non è riuscito ad asciugarsi. È tutto impastato: sabbia, erba, dita, capelli, velo. La scrivo, la mia iniziale, ci riesco. Sarà l'introduzione, sarà il prologo, l'ultimo granello di interesse si sta perdendo dopo essersi aggrappato tenacemente nelle mie unghie e forse non terminerò nemmeno quel discorso intimo, l'autoanalisi, la consapevolezza che ci sia qualcosa che non va, non procede, non sfocia, non trova l'alveo suo naturale. Può accadere. Non si è tutti uguali.
C'è chi semplifica e chi deprime lo scoramento, chi perde la capacità d'amare e chi spalanca al delirio, affronta a viso aperto o segue con lo sguardo la linea lontana dell'orizzonte e a cuore in mano decide di chiudere, fermarsi e contemplare, appollaiata su una pila di sedie, le figure in movimento: la posizione privilegiata di chi sceneggia, dirige e assiste, suggerisce, legge e traduce le proprie sensazioni.
La mia opera, completata o no, s'è già resa nota, ermetica metafora, eredità di tante pagine che han messo a nudo e han vestito, il dono essenziale, il più apprezzato, il più saturo, il più appagante. Ne conservo l'impronta, ma l'ho già riciclato. Altri ne godranno più di me.
A me basta un distillato, che sia sincera essenza del dopo che già dipingo, del prima che è già accaduto, dell'ora che si emancipa dal comune, dall'abitudine di esagitare il proprio sapere e di esporlo su una mensola a prender polvere, dalla speranza che lo si apprezzi e lo si elogi e non lo si critichi… cosa morta da piangere e da seppellire. Incipit per nulla rassicurante. Chi crede di sapere s'irretisce delle proprie capacità di terminati, s'annoia e rimane immobile; chi sa di sapere si avventura tra i tableaux vivants e si perde nelle note e ignote, calpesta i frammenti, si slega dalle rigide strutture e vomita: l'apparenza mesta, il sorriso di circostanza, la vacuità dei rituali, le illusioni, le tradizioni, le costrizioni.
Il cumulo si dissolve alla luce di una lucidità estrema che si materializza, ingloba e precipita nel colore, si ciba di drammi quotidiani e nutre un unico quadro, passione pura, e come tale brucia, distrugge, ricrea.
A volte è facile essere me.

martedì 25 ottobre 2011

But to what purpose



Amm - Ammmusic 1966 - George Russell, Ezz-thetics - Thougths/Round Midnight

Ogni sorta di cose sarà bene
quando lingue di fuoco s'incurvino
nel nodo di fuoco in corona
e il fuoco e la rosa siano uno
Thomas Stearns Eliot

Scruto impassibile il lungo, nero vuoto che mi separa dal mondo. Non ho mai tentato di aprire la porta lì in fondo. Il giorno che vedrà la luce o la precipitazione nell'immenso giaciglio m'appartiene e m'affascina sin d'ora. Giungerà il tempo mio a distorcermi lentamente come un crampo subdolo, seguiranno silenti, microscopiche voci suadenti e allo stesso tempo spaventose. Vedrò l'esplosione come uno spruzzo unitario giocato sui colori... come potrebbe essere altrimenti? Li sentirò pastosi, densi, pesanti, mi farò inglobare nella composta fusione e vi sprofonderò appagata e felice. Sì. Sorprendimi se vuoi. Potrai assistervi, certo. Ti lascio un posto in prima fila a suggerire all'esecutore l'isteria del momento. Sarai ammesso ad aggiungere particolari nuovi, abbandonata sul pavimento delle quinte la solitudine, sarà l'armonia corale... Sarà, ma per improvvisazione, maneggiato con cura ed esasperato, lo strumento corpo verrà slanciato in un lancinante urlo di delirio angosciante per i più. Me ne priverò finalmente, io eterna astratta spiritualizzazione, leggera e pericolosamente funambola prenderò parte all'ennesima burla quantomai ambiziosa e solenne: parteciperò alla mia personale, l'esposizione frammentaria esasperante. Non fermarti. Passa oltre. Non è opera da ammirare. Rifiuterebbe la critica, ti sputerebbe indietro l'estasi. Nell'infinito sequel di dialoghi tra me e me, tra me e te, tra me, te e la natura umana, ho tratto istruzioni mai indispensabili, foglietti ripiegati e stropicciati puntualmente buttati o riciclati per memo smarriti. Non voglio cader preda del nichilismo morale, son capace di tirar fuori l'io dall'involucro inutile e puzzolente di stantio, ogni volta più veloce, sempre più immediato. Non son mai stata un fumetto innocuo. Vivo e mi estendo al di fuori dei margini, torturo il bianco, lo riempio di materia paranoide e lo angoscio di giallo delirante. Il sollievo cede il posto a una profonda voragine d'inquietudine e paura. Le tue, e la mia identità in attesa del tempo diluito e smarrito si tende a raccogliere un presente indeterminato ed eterno. Vieni... Vengo.



lanciò l'amo Eustaki, Petrolio abboccò…

lunedì 17 ottobre 2011

sigla



Non vorrai mica interrompere il mio flusso di riflessioni? No, non ho mai smesso. E non penso che sarà facile mettere la parola fine. Non riesco nemmeno a farli entrare tutte nella mia valigia di cartone. Ho pigiato quanto più potessi. Ma non si chiude. No. Ho lottato per sbrogliare l'enorme matassa dei sogni, quelli avveratisi e quelli impossibili. Giusto per traslocare leggeri. Ma lascio perdere ancor prima di iniziare. Mi seguano quelli che calzo a pennello. Io smetto la cernita, è inutile e troppo faticosa. Cosa porteresti con te in un'isola deserta? Un libro che consumerei. Un dipinto che userei come tappeto. Un disco da far tormento. Cominci pure il mio esilio. Son pronta all'eclissi. Muovo per prima e penso già alla prossima mossa. È una battaglia quel gioco. Non ti rendi conto finché non ti si scaglia addosso, nero e cattivo e giù, di fianco al fianco, colpita a morte, eliminata. Game over. Ora dopo aver letto due righe, m'adagio su Guernica e dò un giro di manovella, m'addormento.


martedì 11 ottobre 2011

distanza


Crepuscolo. Turbinìo fiacco di neve e vento caldo, umido e ritmato, confonde la vista, accende il pelo fitto, si posa a curvare il tuo corpo vivo. Arrivi stanco e turbato, quasi non ti riconoscevo, quando ho aperto e son rimasta piegata sulle gambe nello slancio frenato di saltarti addosso. Solo quando hai deciso di scuoterti di dosso tutto quel cumulo di bianca e pesante patina ho levato le ancore e senza pensar due volte ti ho strappato all'uscio e t'ho affogato di baci e carezze.


Ma il nostro amore non è fatto
di testa, né di cuore o di sesso.
Sorge dalle viscere implodendo
della sua stessa violenza.
È un amore fatto di umore.
Amore-tumore, pensi tu.
Amore-tremore, dico io;
un terremoto, in definitiva.
Questo solo chiedo alla vita:
non sia tu l'amara deriva.
Jacqueline Spaccini

dal 2008 (Loco-Gennaio)

mercoledì 5 ottobre 2011

insegnami la sete

L'acqua non è una cosa che puoi trattenere. Come gli uomini. Ho provato. Hai sete, bevi, e hai ancora sete. È un rito, una serie di gesti che compi con religiosa puntualità, riapri e chiudi. Pensi, ripensi e ricopi. Ma non c'erano degli appunti? Ma sì, non ricordi? Anche una serie di foto scattate in occasione di quello spettacolo. L'autografo, i sorrisi e le strette di mano. Gli abbracci contenuti e le rose. L'odore forte e i petali sparsi qua e là. Lasciati andare. Ancora lo sento. Fiducia e paura. Senso di vuoto e ritmo. Passo, passettino, giravolta. Viaggio. Partenza e ritorno. Rincorro la tua immagine, ti vedo ancora. T'ho perso. Riflessi sul pelo dell'acqua. Risacca che cancella tutto. A piedi nudi prendo un po' di colore proprio sotto il tallone. Verde intenso. Con l'alluce pesco una piccola quantità di grigio chiaro. Ci vuole il blu oltremare. Non ne ho. Finirò per miscelarne altri due. Mi inginocchio e giù un azzurro a chiazze sulla tibia e poco più sù. Ora sì che la sento. Inutile cercar di controllarla, afferrare e possederla. Densa e sorprendentemente sciolta, presente ma allo stesso tempo oscura e simbolica. Si allenta la tensione, si fa prendere, sta stringendo cerchi sempre più piccoli e trasparenti, intorno alla mia vita. Ora sì che ti percepisco. Ti vedo già. Ti lavoro con i polpastrelli. Partecipi e ti fai solleticare, il tempo di assestarti e di rilassarti appena, di dar forma al flusso, la tua acqua in un violento spruzzo mi spinge indietro e io rimango a faccia in sù a guardar il cielo che mi parla di pioggia. Sorseggia, mi dici e non deglutirmi mai.

Frase iniziale Antropologia dell'acqua - Anne Carson

martedì 27 settembre 2011

era così


Busso alla porta dei ricordi. Ed ecco, da cenere di tempo, mi balzi tu, a colori vivaci. Buia, era la notte. Popolata di fantasmi che celebravano degnamente l'anniversario della sua morte. Avevano raccolto i nomi più prestigiosi, e tutti emulavano i fasti della sua opera, pur riconoscendo, mai, mai avrebbero potuto rivisitare se non richiamando, evocando il grande nome e suscitando così inevitabilmente pianto e magra consolazione.
Sono incuriosita oggi, sento la mancanza. Snocciolo e ozio, rimango affascinata da nuove creature e novelli creatori, ma me ne distraggo subito, essi vivono in una dimensione parallela che mai potrà congiungersi carnalmente con la semplice magnificenza sua, firmata con sangue e brandelli, con lacrime e sudore, con graffi e liquido seminale.

C'è nel contatto umano un limite fatale,
non lo varca né amore né passione,
pur se in muto spavento si fondono le labbra
e il cuore si dilacera d'amore.

Perfino l'amicizia vi è impotente,
e anni d'alta, fiammeggiante gioia,
quando libera è l'anima ed estranea
allo struggersi lento del piacere.

Chi cerca di raggiungerlo è folle,
se lo tocca soffre una sorda pena...
ora hai compreso perché il mio cuore
non batte sotto la tua mano.
Anna Achmatova

Spicca e spacca il velo ed emerge ufficialmente a sovrano incontrastato delle mie memorie sopite e interrotte, coito spasmodico che risveglia e scuote, me, ormai adusa a cimentarmi nei suoni tradizionali degli amplessi, sussurrati, urlati o sfumati. Rompe il silenzio perdurante con un funambolico e sorprendente verso iniziale, rilegge in chiave moderna il mio piacere dormiente e dà vita a un più ampio respiro melodico. In piedi, fremente, adorante, applaude, festeggiamo…

L'amore è sutura,
non benda.
Non scudo
sutura.
Marina Cvataeva

In alto Autumn wood - Donald Ayres, frase iniziale Lionello Fiumi

giovedì 22 settembre 2011

videodrome


Parole, colori, luci, suoni, pietra, legno, bronzo appartengono all'artista vivente. Appartengono a chiunque sappia usarli. Saccheggiate il Louvre! William Seward Burroughs

Lo sto facendo. Senza fretta. Eccentricamente potrei dire che me ne son nutrita con fantasia ributtando poi angoscianti e inquietanti visioni poco positive del mondo. Non mi concederò la salvezza. Mangiavo abitudinariamente routine, comune alla maggioranza, la condivo con bellezza e restituivo al mondo esseri mutati, stranianti universi, città infestate. La mia è popolata da orribilanti morti viventi. Siamo tutti zombie. S'inietta il virale contagio e ci si mescola, un'epidemia che non si argina. Non è un'allucinazione. È la moderna e ossessiva realtà che genera il mostruoso etere. Schermo, schermo delle mie brame, chi è il più drogato dall'oscuro potere? Prima di farmi risucchiare nel vortice perverso e onirico del mondo del fanta-horror m'esaspero nella ricerca dell'origine della mutazione e comincio ad interagire con la mia metà meccanica usando codici numerici, parole criptate, messaggio subliminale e metafora, archetipo e allegoria apocalittica. Così riuscirò a crescere a dismisura, raggiungendo la grandezza del potere controllore. Così competerò con gli stessi mezzi con la realtà catodica che annienta le menti e le coscienze. Non è una farneticazione. È l'era di selvaggi che si fa cibo per le macchine evolute e superiori. Suggestione infinita. Finché ci saranno corpi da fagocitare sì… finché ci sarà pulsione irrefrenabile che appaghi sì, poi la realtà ci apparirà una conclusione senza speranza, un ordine a cui obbedire, una fine alla quale non potremo sopravvivere, schiavi della propria percezione virtuale, sbattuti in prima visione, in prima serata nella video-arena, soccomberemo, per interruzione della corrente? No, per comando ricevuto.

lunedì 12 settembre 2011

spirito…


mi fermo su questa parola. Sospiro. È il segnale al quale si tira giù il sipario. O forse no… Potrebbe accadere che non mi si senta. Dietro le quinte potrebbero esser distratti dalla sesta misura ben in vista. E io penso tragicamente: cosa faccio ora? Ho sempre temuto che la fine non avrebbe esaudito il mio desiderio e non sarebbe stata di mio gradimento. L'ho pensata tante volte. Chiusura senza moine, senza bis, né saluti, né sorrisi. È la mia ideale rappresentazione del destino, gratuita e senza fondo. Fatale, ora che sia obbligata a continuare. Ho riformulato gli ultimi minuti, sospesi tra il dubbio e i pentimenti. La decisione spetta a me: mantenermi in essere o levare le mani in senso di commiato e uscire senza dir nulla. Riprendo l'ultima parte, la rielaboro. Sarà un lavoro infinito e io comincio a comporlo: opera sempre in atto e in continua replica. Non potranno incenerirla. Non potranno vietarne la visione. Rimarranno brandelli disturbati, stanchi, ma mai annullati. Voglio un'incompiuta, imperfetta e inquieta che si abbandoni alla presa vigorosa o al timido sfogliare, interrotta e annullata, ripresa e ridefinita. Con lei stabilisco ben presto una grande intimità, mi libero di tutti i fardelli… chi sia a dar vita all'altra è difficile dirlo. In un potente processo di decomposizione io dono forma, lei mi restituisce forza, io mi plasmo con passione, lei ne trae valore. Io decifro una combinazione sublime di parole, m'illumino verbalmente e mi relaziono finalmente con l'altro che la leggerà e la trasmetterà. Per chi come me ha sempre risalito il corso impetuoso, controcorrente, spiccando salti inumani, penetrando il caos e opponendosi al sistema cos'altro potrebbe diventar più facile? Sto deviando e divento diversa, stavo per… si pensava che dovessi… Io ora so cosa sia essere e cosa non vorrei apparire. Che non ci si azzardi a riassumere, a comprimere… è necessario che s'imprima, che sia denso, che si intrecci e che sia evocato, senso e suono, contenuto e forma, disordine e proporzione, puro e detto al mondo come se fosse l'unico linguaggio, ideale e pensiero, fatto, vita… spirito.

dedicato a Eidolon

C'è sempre un'altra storia, c'è più di quello che si mostra all'occhio.
W.H. Auden

lunedì 5 settembre 2011

s'ascose


Accade spesso. E diventa abitudine, modalità riconducibile e classica, ma allo stesso tempo contemporanea. Ci vuole un approccio delicato, prevalente, ma invisibile. Io ce l'ho il mantello. Lo indosso ogni qualvolta senta il bisogno di declinare in modalità assente la mia esistenza. È facile: si comincia dal fondo, ci si lega con un sottile filo, alla base della pianta, si tesse, si stende, e si congiunge fin sù, coprendo anche il viso. Posso venirti vicinissimo, percepire l'inizio di ogni pensiero e catturarne l'essenza più segreta. Ti cammino al fianco e non t'accorgi, ti sollevo e ti sostengo. Il risultato è calpestio leggero, liquido scrosciante, flusso libero, colore sprizzante nell'aria, riverbero tenue, contorni sognanti, dilatazione all'inverosimile, emozione adagiata adagio. Centellino perché non voglio che termini questa mirabile rarefazione, la sapiente atmosfera che viene a crearsi, impalpabile, appena abbozzata, ma che mi cesella gentile e mi posiziona così a caso, in maniera disordinata a far ombra o illuminare ovunque appaia. Proseguo svogliata. Non è pigrizia. È volontà spezzata, interrotta, sibilata… punge in alcuni frangenti, decisa e forte, sporadicamente, il più delle volte è assopita, irraggiungibile, impercettibile come lo spirito che tocco ma sul quale non lascio impronte, credo di sbocconcellarne, ma son solo briciole sparse qua e là. Non ho voglia di disturbare, temo di annoiare e cerco il mio incanto nella sfocatura, nella screziatura, nella disgregazione della realtà… è lì che raggiungo frangenti estatici invero simili ai sogni, quelli più frequentati, e mai interpretati, dai miei occhi aperti.



Sono libera. Lavorerò. La vita non mi fa paura. Sono stati anni di apprendistato. Terribilmente duri, è vero, ma che mi hanno temprato, hanno rafforzato il mio coraggio e il mio orgoglio. E questo mi appartiene, è la mia ricchezza inalienabile. Sono sola, ma la mia solitudine è aspra e inebriante.
Irène Némirovsky

martedì 19 luglio 2011

arrileggerci


Arriva alle spalle, gelata e potente. Mi travolge, sollevandosi proprio in prossimità della nuca abbronzata e mi supera con uno spruzzo alto e beffardo. E io rido, tanto. Sembra che non abbia la forza per rimanere a galla, ma le gambe si muovono, unicamente per quello. Inerzia? Il mulinello sviluppatosi mi spinge sù e mi solleva al di sopra di tutti. Rido. Canto, forte. Ritornello, solo. Le parole si ridisegnano intorno alle mie spalle, si nascondono nei riccioli bagnati e ricompaiono sulla fronte per scivolare sulla punta arrossata del mio naso e tuffarsi rumorosamente. Dall'acqua richiusa emerge un impulso nuovo che il sole cocente non potrà piegare. È reazione chimica, rimozione del vecchio e inutile; è battaglia continua contro l'ansia e la resa. Lo spirito indomito è vivo! Porzione e intero. È stato un pezzo incidentale. Un moto di rabbia. Un urlo insopprimibile. Un pensiero disarticolato. Una porzione sbrindellata e informe che non può definirsi scrittura. Abbozzate, che sia o meno stile, son postume prima che io parta. Chi sei tu per ridere, piangere su queste pagine? Le recupero tra le carte sparse. Da una frase-incipit scivolata fuori dalla tasca, dimenticata e sgualcita, mi ricongiungo all'ossessione d'allora; riesce a riemergere - il periodo confuso - aggrappandosi alla puntuale punteggiatura, si fa articolata riflessione, trascinata dal flusso e collegata, anche se illusoria e frammentaria, alla mia arte complessa, quella che s'unisce a me, caustica, e s'insinua, disonesta, a consumare carne, organi e speranza. Non lascio nulla al futuro se non la familiare sensazione che la banalità degli stati d'animo possa essere condivisa, che lo si ritenga una ripetizione o un riscatto, troppo arduo mi appare oggi, potrebbe affrettare l'ora fatale e perciò sciolgo legàmi e possesso e mi accomiato. Starò meglio. Sto già aiutandomi a star meglio.

mercoledì 13 luglio 2011

Il settimo passo


Son sette? Come le meraviglie? , le rispondo, e cerco di far breccia e di creare un intermezzo… è scoraggiata, ma tanto giù che riesco a intravederne le suole. È profondamente depressa, anzi per esser precisi, nel continuo oscillare pendolare tra gli eccessi di simpatia e le picchiate violente ha scavato una buca enorme e lì in mezzo ad acqua gelida e buia si opprime e perde speranza. Per prima cosa ti regalo un epilogo, un sublime approdo sul quale sciogliere in toni surreali le tristi circostanze… scegli se legare le cime o sfiorare gli abbracci rimanendo alla deriva. Ho sognato che ci fossero due soli. Uno tramontava, l'altro sorgeva in uno scambio di reciproca gentilezza. L'uno si tuffava non appena scorgeva l'altro che giungeva a toccar la sponda. Gli eterni lottatori sistemati sulla pista illuminata, i poderosi nuotatori sempre in bilico tra gli abissi e la superficie. Persevera. Inseguimi. Resisti. Che tris inossidabile: io, te, i mulini a vento. Sempre più audaci, ogni volta più tesi nell'insopprimibile volontà di perseguire l'unica ragione di vita: serra, irrora, nutrilo, suona il motivo celestiale, quartetto d'archi in lontananza, abbatte tutti i muri, potente, inscalfibile, ingovernabile. Dobbiamo esser spontanei, questa è la nostra arma, priva di disegno logico, si serve di un piano improvvisato in cinque minuti, rimango inossidabile vedetta orientata a nord, a individuare i margini, a tenerli lontani. Ostinato tempo, prendi una scorciatoia, vuoi privarci del ruolo da protagonisti, ma noi, sull'onda emotiva del respiro impresso e della lacrima mai sgorgata, tagliamo gli ormeggi e calchiamo la scena sesta quella in cui è scritto lo sberleffo al destino, ignorando tutti i canoni, invertendoli e sovvertendoli... lei ama, lui ama. Il senso di lettura, la contesa tra buio e luce, l'inizio o la fine del sentiero, le sbarre e gli squarci, il pieno svuotato, gli occhi spenti e i visi accesi. È Settima arte, palindroma come i loro nomi, quella O che ti si disegna sulle labbra, il suono della sorpresa e dell'emozione circolare. Ottima.

Volevo scriverti una storia sulla magia. Volevo conigli che spuntassero dai cappelli. Volevo palloni che ti sollevassero fino al cielo. Ma è diventato tutto nient'altro che tristezza, guerra, afflizione. Non l'hai mai visto, ma dentro di me c'è un giardino.
Io sono febbraio - Shane Jones

lunedì 4 luglio 2011

occhi neri


Come pupilla, nera; come pupilla, succhiante
la luce - ti amo, perspicace notte.
Dammi voce per cantarti, o progenitrice
delle canzoni, nella cui mano è la briglia dei quattro venti.
Chiamando te, glorificando te, io sono soltanto
una conchiglia dove ancora non s'è taciuto l'oceano.
Notte! Ho già scrutato a sazietà nelle pupille umane.
Inceneriscimi, nero sole - notte!

Non rimarrò ferma, e vedervi camminare. Non son fatta per stare a guardare, transenna a impedire o permettere il transito. C'è in me una forza che si fa strada. Passo dalla terra all'aria. Mi faccio goccia nella nuvola e piovo, dinamica e bella, a sbocciar fiori nel mondo, grandi e multicolore, ci sopravviveranno e creeranno un insieme e una comunione capaci di cambiare presente e futuro. Ti pare che io sia immobile? Vedi piatto? No, ci spostiamo e andiamo verso un fine ultimo. C'è un ordine interno in nome del quale opera il mistero solenne che scorre e attraversa il buio bulbo dei tuoi occhi. Vi aderisco spontaneamente e percorro al contrario la storia, dalla generazione all'accoglienza al disfacimento. Calpesto quella polvere e la sommuovo ed essa viaggia insieme a noi e tu con me. Chiediglielo. Che ci riveli i suoi segreti. Quando e come sia scaturita dalle stelle e sia ricaduta ad illuminarci, per trapassarci e vincerci, per abbatterci e perdersi con noi, su di noi.

Versi di Marina Ivanovna Cvetaeva

martedì 28 giugno 2011

astro nascente

Il tempo passa, sto invecchiando. Sono obbligata a dire cose di cui non debba pentirmi. Tutti stanno sempre a ribadirmi lo stesso concetto: il peso della responsabilità. I miei 57 chili. Ne sto perdendo a vista d'occhio. Tra un po' peserò meno di quel cuscino. Calamelo, per quanto mi allunghi, non riesco a prenderlo da me. All'apparenza una donnina in salute. Dentro mi sta divorando, gradualmente, inesorabile, spodestandomi, l'equivoco più grande, più potente del tuo: ti starò vicino in salute e malattia… quali? Bé le mie e le tue. Lotta intestina. Alimentata dal tuo equilibrio e dalla mia scarsa difesa. Immunità contaminata da parole vuote brulicanti. Sono circondata dal tuo affetto, a volte eccessivo, ma vitale, e dagli aggressori virali, hanno una energia innata, una febbrile impazienza, non hanno paura del tuo strapotere censorio, issano scale, salgono, invadono… e io? Benvenuti. Prego. Ho preparato degli spuntini. Satolli e ubriachi, forse ci impiegheranno altri mesi, un anno in più, chissà. Arrivano i nostri! Li hai chiamati tu? Siamo o no una squadra? Sulla scacchiera, alla quale sono così legata, sono disposti secondo gli schieramenti, bianco-nero; eppure son sempre stata contraria ai luoghi comuni, maledizione: vita/morte. Vinca il migliore. Guarda come li ho disegnati. Non son diversi? Si muovono, galleggiano, informi e aerei. Impalpabili. Li sento vicini. Mi sostengono. E mi animano. Loro sono la mia anima. Appoggiati a me. Non ti voglio come bastone della vecchiaia. Non ho pensato a questo quando ho sfilato i vestiti, la prima volta… e l'ultima. Usciamo. Magari non vinceremo la rivoluzione, ma si va fuori.


Quando tu sarai vecchia, tentennante
tra fuoco e veglia prendi questo libro,
leggilo senza fretta e sogna la dolcezza
dei tuoi occhi d'un tempo e le loro ombre.

Quanti hanno amato la tua dolce grazia
di allora e la bellezza di un vero o falso amore.
Ma uno solo ha amato l'anima tua pellegrina
e la tortura del tuo trascolorante volto.

Cùrvati dunque su questa tua griglia di brace
e dì a te stessa a bassa voce Amore
ecco come tu fuggi alto sulle montagne
e nascondi il tuo pianto in uno sciame di stelle.

E. Montale da W.B. Yeats
Dipinto Gianni Rodari

giovedì 23 giugno 2011

piacere


Le sembro morta? Mi vede? Son qui protesa verso la sua mano. La avvicini. Mi tocchi. Segua le strisce ruvide, intense, sovrapposte, le accarezzi. Ora passi su arancione e rosso, mi sente? Mi muovo all'interno della tela, attraverso le sue dita appoggiate lievi, ora spinga più forte, venga, entri, non abbia paura, non si agiti, la tengo io. Le spiegherò. Si schiarirà, la materia oscura che non interagisce solitamente con l'universo esterno, si rispecchia nella forma comune in un'armonia cosmica e si fa percepibile solo in virtù di grandi doti di sensibilità e astrattismo lirico. È comparsa nella penombra della sala. Propensa e trasparente. Molti son sfilati. Freddi, distanti, netti, necessari. Lei invece è informale, soffusa, emotiva, plastica, superflua. L'ho avvertita subito. Lei sa ascoltare, lei è capace di stimolare e trasmettere. Parte alla scoperta degli spazi immensi, si inarca splendida aderendo alla straniata deformazione prospettica. Si avventura in strada tra scorci inesistenti e impossibili linee e piani in una fantastica notte in città, mi perdo, urla, e nell'atmosfera sospesa si eclissa dietro una parete mozza, mentre intorno si elevano grattacieli infiniti sviluppandosi in angolatura curvilinea da grandangolo. Potremo tornarci quando vogliamo: è il nostro deserto, la visione contrastante e fulgida, la sorpresa della luce e del colore, l'identità e la forza della natura che prende il sopravvento e riempie, trasformandosi in paesaggio antropomorfo fatto di ghirlande di curve e anfratti caldi di grande sensualità. Aboliamo i formalismi, m'invita. Ha tratto nuovi spunti, gioca con l'esterno, spruzzando particolari e raccogliendo reperti e impressioni. I ruoli si sono invertiti, e questo sembra divertirla molto. Impossibile non notarlo. Riesce a dipingere e a scatenare nuove emozioni. La nostra intesa è naturale e scolpita come nella rossa argilla. La nostra visita è diventata soggiorno dislocato indistinto stemperato instabile… il tu mi rapisci una preziosa opera dissoluta incastonata nel nulla ma dall'impronta indelebile.

in alto Georgia O'Keeffe, Music-Pink and Blue II, detail, 1919. Oil on canvas.

venerdì 17 giugno 2011

preconizzo


Incauta ricorrevo all'aldilà ma fui ben presto scottata da mani invidiose.



Mi racconto un sacco di fandonie. Non m'arrendo, no. Hai detto venticinque giri? E ventisei siano. C'è entusiasmo nella tua richiesta d'amore. Io contrappongo uno sguardo traslucido: un istinto malsano, in continua oscillazione… è ansia d'esser felice, è evanescente desiderio, ossessione meccanica, levarsi e addormentarsi, sforzo di invenzione, volontà pendente, insoddisfazione e battaglia estenuante. La vedo, la sento, l'assaggio, è donna, è uomo. Che sapore ha? Non trattengo abbastanza a lungo perché riesca a formulare un chiaro linguaggio, il mio tira, strattona e si rivela in ordine visionario, scardina la sintassi consueta e si monta da sé. Scritto da te? Non so. Lo estraggo e quello brucia, in un attimo, il rapporto di un'ora, non è velocità, non c'è indifferenza o freddezza, è un respiro senza metrica, un urlo senz'intervalli. Come fa male il vivere, presenza che si stende su un piatto materasso e buca e s'estende fino a raggiungere il sottostante piano d'assenza. Ora si leva e s'appoggia esausto al muro, e lei lo raggiunge e ricomincia la lotta, e lui in un estremo tentativo di sfuggirle attraversa ventisei centimetri ed esce alla luce. Fantasma t'ho battuto. Sicura. Di verso in verso. Linguaccia e smorfia. Pronuncio con sprezzante orgoglio le ultime frasi quasi a lacerare lo strazio tuo. Non temere. Torno. Lascia che trovi un riscontro più emozionante ora alla mia immateriale e impossibile minuziosità, spazio sperimentale e immediato lasso di tempo. Sporge un po', è un pezzettino di carta bianco. Scosto il sedere ed ecco, casca giù e lo leggi. Marca tragica e lettera breve d'addio. Scatto e lo caccio in bocca. Butto giù. Son scossa dal formicolio delle lettere che già si mettono in circolo. E tu annoti. E tenti. E ritenti. Non era un formulario. Non c'erano istruzioni. È inutile. Parole. Troppe. Se ci fosse un metodo le riscriverei e restituirei ad esse la rilettura originaria, cosicché tu possa comprendere e renderla intera. Sregolata. Son così. Il mio è monologo che segna dentro e fuori ogni ascoltatore. Tanto. Mi ricordo. Ventisei. Continua, ché ti raggiungo. Il colore che torna dal nero al verde d'un prato affamato fiori scesi giù tranquilli posano per gli artisti guardandomi girare tranquillamente per le strade a volte bianche.

Versi di Amelia Rosselli

mercoledì 15 giugno 2011

l'altrui…



… bellezza, solo quello. S'infrange, ticchetta, gorgoglia, incessante e mai doma. Muta e rimane sempre se stessa. La congeli, cosicché puoi esaminarla e fotografarla. Cristalli diversi che mutano di struttura e, sensibili nastri, registrano… musica, vibrazioni, messaggi. L'ambiente comunica con lei e lei ingloba informazioni ed energia, restituendo a me, a noi bellissimi disegni o mostruosi scarabocchi. Dipende dal tono dei tuoi sentimenti, dalla forma della tua voce. Parlale, dolcemente, e avrai cristalli bellissimi. Schiaffeggiala e ti sputerà in faccia forme amorfe e disarmoniche. Guarda come cambia, inconsapevole e potente, femmina, maschio: fonte impagabile, confine inesistente tra materia ed impulsi sonori, immensità languida su cui navighiamo e tempesta della quale c'inebriamo, fluido in cui penetriamo, linguaggio universale. Tu non puoi decifrarlo, ti sfuggono alcune sfumature della monumentale utopia così come accadeva in un altro tempo, tu fra i dementi che bombardano, stimolano, stabiliscono la conquista o aspirano ad essa. Mentre tu t'affanni alla ricerca di una risposta tangibile e fisica, passo e m'attraverso, esco e tento un contatto interiore, me ne innamoro follemente e da esso mi lascio travolgere e naufragare. Egli è oceano che t'affanna e ti distruggerà. M'accosto allo sterminato colosso, mai smaniosa, mai finita… Egli è segreto che m'interessa e mi nutrirà. Egli è noumeno. Per nulla percepibile, mistico e solitario. Attendo e continuo ad orbitare. Non è cecità mistica, non è rassegnazione. È vita. Uomo, t'aspetto, non tardare… ma persistevo nella fede irremovibile che l'epoca dei miracoli crudeli non fosse ancora finita.

Stanislaw Lem



all'acqua, energia pura e suono mutevole

sabato 11 giugno 2011

nell'aria inquieta


Guardalo quel fiore, campanelle pesanti, cariche di vita, figure femminili vestite di un vivido e livido fluido vivificatore, nutrici, madri, piantano e fissano le proprie radici della grande e calda cultura in un suolo spesso arido, sempre mangiato dal vento secco, ributtato dall'umida folata. Che fatica vuoi che faccia una pianta nel tracciare e sprofondare nella terra a culminare nella storia, a far germogliare le nuove linee etiche, spezzate e folte, melodiche e confuse, intricate e volte al sole, quel fuoco che brucia, beve dalla terra e crea la grande sete? Si fatica più a cercare di coesistere, smussare e conformarsi, quando sarebbe così facile, giusto, accettare orgogliosi le diverse tonalità, metterle in rilievo, dare colore dove serve, distribuire luce e ombra in un'equa composizione dei contrari, bianco-nero, in una omogenea complementarietà, generare una grande fusione di opposti, perché la differenza intesa come crescita ci fornisca una via d'uscita: un chiaroscuro che annulli i contrasti. Quale guerra potrebbe mai risolvere il grande dilemma della distanza, quale scontro vorrebbe mai guarire l'enorme ferita ancora aperta? Le due anime percorreranno quelle fratture lunghissime, la palma fresca inserirà la linfa vitale, il dorso scuro inciderà sugli squarci aperti, i piedi carichi di suoni, rumori, odori segneranno impronte fugaci, giusto il tempo di essere riseppellite dalla sabbia, le mani si stringeranno e si trasmetteranno la comunicazione del passato e l'incontro dei proverbi… la più grande battaglia è della bocca.

Non ci sono stagioni in Africa?
Diciamo che oggi è qui la primavera
venuta a far due passi con noi
giù da Harare o da Bulawayo.
La sua brezza benevola vi consoli
le narici con l'aroma
di abbondante flora in boccio,
spalanchi le vostre braccia ad accogliere
il soffio recente di libertà
attraverso le città e i villaggi sfiancati dalla guerra,
e afferri i coriandoli di porpora che fluttuano e cadono
su marciapiedi alberati, tetti ed automobili;
un festival di fiori oggi in Harare,
primavera è venuta in Zimbabwe per restare:
la jaracanda è in piena fioritura.
Seboni Barolong

in gemellaggio artistico e poetico con quella ligure di Adriano Maini

mercoledì 8 giugno 2011

sogno logico


Io non ci vado. Cercala tu. Come? Tocca a te. No, ho paura, ci-vai-tu. E cominciò il peregrinare. Non è più terminato. Mi condusse a un paese musicale nel quale ho fissa dimora, fuori dalle mura circoscritte della città provinciale, povera e decadente. Sono tuttora preda di un singolare stato di sdoppiamento, occupante felice di una doppia esistenza, in una terra incantata priva di limiti angusti, soggiogata piacevolmente dal potere rilassante e benefico a cui aderisco con abbandono e fiducia. Nulla di più potrei dire, null'altro potrei ricordare. C'è un pulsante invisibile, pigiato il quale, si avvia un immediato processo di accensione onirica, allucinatoria. Sublime. Esperienza ed essenza inafferrabile, mi rivela arcane risonanze e nella quale trovo risoluzione delle dissonanze della vita e ricompongo le fratture tra interiorità ed esteriorità. Libera. Mi libro leggera, priva di forza gravitazionale, vago al di là delle proporzioni reali e costrittive. Sola. Scelgo l'esilio volontario e porto via con me l'ipoteca sugli spazi concessi ai miei ideali e ai miei interessi culturali. Desta. Non so. Forse. Intanto considero la mia opera come uno strumento. Il mezzo di trasporto che mi elevi in una sfera superiore, in cammino verso l'identità suprema: idea, mirabile idea. Senz'indugio mi spingo fin dentro le macchie verdi, selve e foreste lisergiche, nel profondo che dovrebbe distrarre e divertire e invece diventa il vero, unico scopo, vertice delle umane aspirazioni, esaltazione del creare e anelito della composizione. Architetto dei miei sogni. Riunisco ricordi dell'infanzia, giochi e filastrocche, pulsioni ed emozioni giovanili e mi trasfiguro, senz'ombra disegnata in terra, senz'alcun dubbio di ribellione del primo amore, mesci, assumo l'antidoto alle soffocanti convenzioni e, priva di costrizioni, m'accompagno alle amiche proiezioni del mio subconscio. Allegra assai. Mi slancio contro la maschera cupa e ignobile. Ma quella scompare tra vapori e colonne in frantumi. In risalita, vieni. Aggiungo elementi nuovi, topoi a successione, a imitazione, creo scale ascensionali, ribatto in sincope con accordi e note frutto di infrazioni alla condotta generale, moniti irrimediabili, corrispondenze, allucinazioni ferme. Chiudi. Lascia che ci cerchino dieci minuti o sessant'anni. Sì, era una botola di luce, la luna, e attraverso di essa saremmo entrati nell'eternità.

Profondamente segnata dall'innesto.

Frase finale tratta da Hanno amore, Gianluca Chierici
In alto: Girl amongst leaves, 1893 - David Gauld

lunedì 6 giugno 2011

intenzioni

Le ho maneggiate tante di quelle volte che son lucide. Me le son girate e rigirate tra le dita; milioni e milioni di volte, guardate e rimirate, studiate e criticate, sospettate e ridotte. Per una, benedetta, altre, tante, distrutte. Una scusa, una fasulla giustificazione e in malora, via tutto. Bastava non sporcarle, non sottoporle al pubblico ludibrio, chi mi disse un giorno: custodiscile, e tienile in serbo, solo per te, chi? Non ricordo, ma so che aveva ragione. Avrei dovuto proteggerle, non sottoporle agli scossoni, all'inondazione dell'ignavia, allo sputo della denigrazione, all'usura dello sdegno, e alla pigrizia del coraggio. E cosa ne avrei tratto? Dal cambio, oggi so, ho ricavato un grande valore che nulla ha da invidiare alla varietà dei suoi elenchi, o allo scherno delle loro smorfie... Qualcuno un giorno disse che non vi è nulla di peggio che non essere compresi. Chi? So bene chi, maestro di poesia ed arte, fondamentale guida, pensiero vitale, genio anche lui violentato. Non gli impedì di arrivare fino a me ed io in sua compagnia vago e scavo, trovo altri giacimenti, nuove risorse. Non già una sorpresa, credevo fosse seme iniettato, invece era lì, indugiava sornione, s'agitava e si crogiolava, attendendo, paziente, che arrivassi a coglierla, lei insieme alle sue simili, in tutta la loro bellezza, esercitando un potere di cui non conoscevo l'esistenza o la tenacia. Coinvolta, in tutto il mio essere, ne sento gli effetti, investita ed onorata di esser stata scelta: l'ho mostrata, fiera, l'ho valutata, prudente; ricchezza sonnecchiante, ma mia, la afferro forte e la cedo volentieri, condividendo con altri l'entusiasmo, lo slancio e il coraggio, l'interiore libertà e il sacrificio degli interessi particolari. Ci sono, gridano ad una ad una. Grande la gioia, aperti i sorrisi, morbide e leali le strette, accoglienti gli abbracci, veri gli auguri, resistenti gli appoggi. La poesia mi offre soccorso, aiuta a riscoprire, a risvegliare. Son tanti i passi che riesco a ricordare, a tratti mi rincuorano, suscitano gratitudine, un moto sano d'ammirazione e di rinnovata azione, avranno un significato quelle parole che scritte più di un secolo fa, fanno capolino dai miei libri impolverati e ammiccano perché siano usate e tradotte. Leggetene e fatene tesoro, distribuitene a piene mani, sbracciatevi finché non vi vedranno e sottolineatele, ripetetele. Saranno come bandiere, come striscioni perenni, scudi contro l'inerzia dell'ovvio, saporite ricette, dense creme che andranno ad emulsionare la cattiveria, ad idratare la ruvidità del quotidiano. Ma esprimetele, imprimetele bene che tutti le possano vedere, insegne luminose sulla vostra fronte, sbatacchiate e insistenti, purezza dei segni contro il buio del silenzio colpevole. La sua lirica, sostegno irrinunciabile, l'ho ripescato non richiesto, l'ho eletto mio saggio suggeritore... farò una figura grama, o, forse, sarò salva, nelle piccole e impercettibili verità polverizzate rintraccerò la modernità: quando un vecchio sa esser giovane e sa tessere con le sue parole dei ricami preziosi, assai più egregi delle sue vivaci cravatte, si fa voce sincera e mezzo di trasporto di idee e intenzioni in una corretta direzione. Attraverso stanze oscure, percorro corridoi nascosti. In fondo all'insidia un varco, m'affaccio e mi bacia, il futuro caldo e abbagliante. Una serie infinita di trappole non è bastata ad imbrattarmi l'anima, ostinata e bruciante, come quel puntino luminoso che spinge dietro la mia palpebra cieca. A me trasgredire... mio quell'ordine insorto.

Proprio l'istante in cui la bellezza,
dopo essersi fatta lungamente attendere,
sorge dalle cose consuete,
attraversa il nostro campo rigoglioso,
lega tutto ciò che può essere legato,
illumina tutto ciò che deve essere illuminato
del nostro retaggio di tenebre.
René Char - 'à une sérénité crispée'

a PrimaveraLocorotondo

venerdì 3 giugno 2011

confini



La parola è una finestra aperta verso la realtà.

L'ultima volta che l'ho abbracciata è stato un Natale. Si precipitò giù per le scale, e sul primo pianerottolo forte, commovente, strettissimo: ah, sei qui, e, come se la conversazione non fosse mai stata interrotta, giù nel giardino, eravamo due fiumi in piena, aggiornamenti arginati solo da lacrime e sorrisi e nella corrispondenza costante dei racconti, saltavamo tra episodi, storie, disordinate, stagioni, pensieri. Tutto grigio, qualche macchia verde e noi all'ombra, ancor più scure, sotto un albero maestoso di frutti sgocciolanti succo dolcissimo. Un'infinità di colore, noi due e quella massa carica di profumo, una macchia rosseggiante che mi sorprende ancor oggi nel ricordo di quel giorno. Un quadro che si agita nella finestra aperta ora all'interno della immaginazione e mi piego per raccogliere a piene mani lo squillo e il contrasto e il tesoro inestimabile. A malincuore affermo oggi: quell'albero è stato tagliato. Estirpato con i nostri affetti. Son stata forse troppo fredda, capace poco di aderire alle tue idee e confermare i nostri ci piace. Le nostre convinzioni si sono sbriciolate, le parole già precarie, al primo ostacolo, sono inciampate e son rovinate come quelle facciate vecchie e scalcinate. Mi ci son affacciata un giorno e da un angolo mi son fatta beffe delle promesse e dei giuramenti di bimbe. Non son fatta per i legami stretti. Cazzo significa? Non lo so. Ma mi sento nuda dopo un po' e me ne vergogno. L'imbarazzo non era un'invenzione che avessi in mente. Tu non sai amare! Ahia, quell'esserino ha parlato e decretato la fine dell'io, di quell'io che si faceva un sacco di domande, e che avrebbe atteso una vita prima di trovare le risposte. Ho ancora un punto interrogativo, la domanda… e il silenzio sbuca fuori e rode le convinzioni radicate, in tanta coscienza non assoluta, su vaste superfici, tra conflittualità e libertà di pensiero, al di fuori della logica comune, senza indirizzo, poca polvere sugli scaffali e tanti alberi di cachi.



finché non ho compreso che non esiste parola che faccia male come te.
Pavle Stanišić

i versi iniziali sono di Herbert Zbignjew