lunedì 26 dicembre 2011

respiro


Primavera non bussa lei entra sicura come il fumo lei penetra in ogni fessura.
Fabrizio De André Un chimico

Stappa, muoviti, ho sete! Sto rimuginando e da un po' anche. In questo sono in anticipo. Eh, non mi aspettavi. Pazienza. Non ci pensare troppo. Dovresti solo considerare l'onore della visita inaspettata. Apri. Rileggi. Sottolinea. La trovi a metà opera. Sta lì tratteggiata con cura, nota a lato, scarabocchiata a matita. È mia. Posso farci ciò che voglio. Ho smesso di dar conto. Finii per caracollare rovinosamente una volta che m'ero appoggiata troppo. Quello si scostò e mi lasciò per terra. Fu un attimo. Era un'immagine riflessa. Bastò un'incrinatura o uno screzio, dopotutto. Ma era comodo; ideale, ingenua, pigra, indolente io ho dovuto interessarmi, prendere informazioni, acquistare consapevolezza e a caro prezzo, purtroppo, ma l'autenticità è estranea, molto spesso, all'incanto e alla favola. Affiora, ne senti il profumo, la calpesti appena, ti sventola sul naso e ti colpisce impercettibilmente, avverti una puntura sottile e sanguini; tu la vorresti tenere lontana, è assurda, inconsueta, priva di privilegi… hai le dita livide a forza di afferrare, stringere, trattenere. Inutile. Questione di tempo. Potenza del cambio di stagione. E quella minaccia, esce, esonda, travolge. È arrivata. Ora la vedo in tutta la sua indisciplina, ruvida e incondizionata: piangere lacrime amare e vedersi sospinta in quelle verso lidi lontani a toccare e vivere terre straniere, e sentirsi rievocata in pomeriggi tiepidi ad errare per altri sentieri. Ora so farla vedere. È così che ho iniziato a scrivere… se avessi mai smesso.

Noi non appartenevamo a nessun luogo, a nessun paese, a nessuna classe, a nessuna professione, a nessuna generazione. Il nostro vero essere era altrove, esso aveva per confine l'eternità, e l'avvenire l'avrebbe rivelato: noi eravamo scrittori.
Simone De Beauvoir
L'età forte




la estendo anche agli illustratori…


primavera a dicembre? quando mi pare.. quanta ne sento.. dove voglio.. per chi ne ha

domenica 18 dicembre 2011

respingente


Scrivo, leggo, dipingo… e ricomincio daccapo. Non farmi complimenti. Ogni volta mi sento contorcere dentro, un intrico di rami e, peli, grandi come rami. Infilo le dita in gola ma non vien fuori nulla. Mi riempio di alcol, fumo per stravolgermi, sperpero ogni grammo della mia anima, ma niente, niente… e dipingo, leggo, scrivo. Sto uno schifo, altrimenti come vorresti chiamarlo? A me sembra uno scarabocchio. Perché non capisci un cazzo di arte. Potrà pur essere sconnesso, disturbato, profondamente devastato, ma è il mio: pensiero e segno. Permane e attraversa i fitti strati. A bordo, io, è un evento: gelo e vuoto insopportabile, atmosfera tesa a raggiungere vette impossibili e un salto nel buio denso, sempre più. In fondo, io, è un ricordo ed è il prossimo accordo, contrappunto necessario che m'introduce alla esplosione doppia. Una vita fa sarei stato felice e lei sarebbe stata soddisfatta di me. Fammi capire, non c'è un finale, non intravedo morale, non sento… mi penso sù; riscrivo: le dita viaggiano ormai attraverso la sabbia, urtano e trasudano solitudine. Viaggio senza limiti e con trasformazione. Pori e vesciche respirano, branchie improvvisate, epidermide trasparente, estremità palmate, abissi accoglienti. Sono ospite inatteso e scomodo ma questo è universo di suoni che non ammette confini, non vieta e non impedisce. Ci sto a meraviglia. Passo… Urgente rinascita, memoria appagante, infinito indefinito. Ci riesco. Scrivo e vomito. Leggo e mangio. Dipingo e mi vedo. Il mio pensiero come un vetro nel quale capovolgermi, riflesso e riverbero. In superficie infrango e ne tiro fuori solo un graffio. Ehi, maschera, ghigni? Dentro, io, è un ritorno ed è l'insegnamento, esagerazione ovvia, nuoto e giaccio nel mio mare d'inverno. IO, malato, risanato, patetico, spietato e folle… pronuncio il mio nome, dico io e subito evoco un personaggio in realtà tanto fantomatico-astratto-arbitrario quanto l'acqua si riconosce nel simbolo H2O piuttosto che sotto forma di grandine, torrente… ne venivi fuori e nascevi... auguri cara.
Jacques Rigaut Agenzia generale del suicidio

venerdì 16 dicembre 2011

pensiero stupendo

In questi primi giorni di freddo, nei quali la cosa migliore è scrivere o disegnare, schizzo su un foglio una folla in movimento, con cancellature e bagliori improvvisi, lingue di cammino distorte sui loro volti, calore di fiato fuso con ghiaccioli d'indifferenza. Ogni tanto mi fermo e parlo con loro. Qualcuno mi racconta la sua vita, io spiego che devo ancora terminarlo e ricomincia la corsa verso grandi magazzini, la metro e i tram, indico le fermate e i capolinea. Ce n'è uno che mi fa cenno di seguirlo. Io gli rispondo che ho capito, mi volto le spalle e prendo a camminare insieme a lui che mi ringrazia per la fiducia. Non è da tutti, dice, accogliere l'invito di un fumetto. Figurati, rispondo io, tratto a parte, mi sei venuto bene. Ci fermiamo un attimo sul marciapiede. Non passa nessun autobus, c'è un vigile, mentre continua a multare i furbastri parcheggiati sul marciapiede, con un guanto levato in alto chiama un taxi che inchioda proprio davanti ai nostri piedi. Lo prendiamo al volo. Nell'abitacolo, troppo caldo, troppo comodo, non parliamo, non ci scambiamo nemmeno uno sguardo. Comincio a sentirmi a disagio. Ma c'è la radio accesa: tanta musica, brani a ripetizione tra i quali riconosco una voce splendida di grande suggestione che ci trasporta in un'altra dimensione, ancora un'altra… disorientati, perdiamo ogni contatto con la realtà terrena. Io fluttuo fuori e dentro, in trance; lui, non distante da me, sul suo ginocchio sta continuando il mio disegno con matite colorate. Ne risulta un quadretto delizioso, metà in bianco-nero, metà a colori. E sul retro una piantina. La consegna al tassista. Vedo sfilare attraverso il finestrino del mio lato la moltitudine nelle strade. Sfumano, sfocano. Mi ritrovo tra le dita un pezzetto di foglio, del mio. M'ha lasciato una poesia. Non m'ero nemmeno accorta m'avesse sfiorata, né che mi avesse dato la mano.
E chissà, forse, era un clandestino.


Saluto

Io lascerò il mondo con furia.
Non importa quel che apparentemente succeda,
se dolcemente mi ritiro.
Di fatto in quel momento
si staranno strappando da me
radici così profonde
quanto questi cieli brasiliani.

In un frastuono di genti e venti forti
occhi che ho amato
volti amici pomeriggi ed estati vissute
staranno gridando
perché io resti.
Non piangerò.
Non c'è singhiozzo più grande che salutare la vita.

Ferreira Gullar

dal 1993, (Milano - Dicembre)

venerdì 9 dicembre 2011

vizio o virtù


Comincia in prurito, un oscuro bisogno, vitale e profondo, prosegue con un tic, e gran finale, realizzato e celebrato su grande schermo dei miei giorni e delle mie notti, il rito, si esalta tra due dita malate e oziose che afferrano quel frammento tragico e stringono, fino a soffocare corpo, carta, anima, ma non lasciano sfuggire nulla, nemmeno la cenere... la traggono dentro, la sospirano, la vedono salire fino a quella parete in alto, colorata d'azzurro macchiata di giallo ocra. Trascende sulla cupezza del materiale, sulla meschinità dell'umano il demone, fa voli notturni e dilania, si unisce con il delirio, preda e si nutre, sputando fuori decoro e cura. Il mistero è tutto qui. Ti serra l'umido pertugio, ti strizza fino a farti svenire, ti riempie e ti vuota come se fosse aria quella che succhia e rimani comunque attaccata e semi cosciente, ma viva, iniettato di veleno greve, ma vive. Continua in punta di lingua, in inglese per intenderci, traducibile in spagnolo, se preferisci; ha lo stesso senso di lettura, l'intonazione sale, si acuisce e si sviluppa in eroticissima spirale, suadente e strisciante, s'avvolge ai miei ricci ai quali ben s'intona. La chioma folta e confusa, rovinata all'indietro o intrecciata alle tue gambe, intrise dell'aroma di caffè appena fatto, amaro e forte, perché devo tenermi sveglia ad aspettare, per ricominciare... ancora e ancora. Grosso e sensibile, puntato come un'arma invincibile che offende e mai si difende. Perché dovrebbe? Niente di più piacevole che esser impugnato e manovrato a spalancare trame e percorrere tessuti, a svolgere e coinvolgere nella grandezza e nella pienezza, possente e impetuoso, l'intimo attraverso la superficie. Complicazione prevedibile la maschera di dolorosa passione fusa con la tua faccia. Ha preso fuoco insieme a me; brucia, arde, giace e viene ripreso, masticato e inumidito, sorretto e precipitato.
Ti è caduto il tabacco fratello, ti è caduto. Tu mi avevi detto che era acceso. Ma ti sei dimenticato di dirmi che il tuo tabacco ti è caduto.
Guillermo Cabrera Infante

lunedì 5 dicembre 2011

via da me

Io che guardo,
son rimasta contratta,
petto in subbuglio e testa fuori.
Abbagliata da quella vista, penso:
qui voglio stare, ogni altra terra mi annoia.

Digiuna da giorni, comincia a sentire i morsi, che poi
quanta carne l'è rimasta ancora?
Viso emaciato, mani inerti,
fuori soffia un arido scirocco,
vento che acceca, pesante e infido.

Io che sento,
m'aggrappo alla spalliera, davanti a me.
Mi alzo e m'allontano piano, son passati tredici mesi.
Tagliata in due dai suoi lamenti, dico:
qui devo stare, ogni altra casa mi respinge.

in sottofondo musica intangibile, metà fisica metà aeriforme, quinta e sesta traccia, passaggio da stato liquido a gassoso, attraversa, si sofferma a incidere, scolpire; lavorio… si modella.. prende forma.
Poi parlerà anche a voi. Lui ora è qui.


Ah! a questo punto potrei fingere o tacere; ma a che cosa mi serve questo racconto se non è più veritiero?

André Gide