martedì 20 aprile 2010

Koyaanisqatsi

che sarebbe meglio il più delle volte… solo immagini e musica, non parlate, risparmiateci lo sforzo, evitate che poi alla fine: "Bè, che te ne pare?"… "mhhhhh, dunque direi che, a parte alcune considerazioni superficiali, la prima parte sia quella che m'ha colpito di più… mhhh" [sì direi in testa e al fegato peggio di un masso o di una intera bottiglia di whiskey].
Galvanizzata dalla colonna musicale (che è l'unico aspetto su cui m'informo prima di vedere un film) mi accomodo su pouf vari, uno più alto per le gambe e mano al bicchiere con tre dita di Talisker 25 anni e schiaccio il tasto play, essendomi assicurata che il telefono e i tre astanti, preparati alla visione, rispettino il religioso silenzio o al massimo si dileguino a mangiare il gelato che mi son portata dietro dal lavoro.
In mezzo a figure di pietra, il razzo decolla… è il prologo, la storia inizia e comincia a prendere corpo, assume la forma di un deserto che mette ansia, si sale verso l'alto come evaporando, tutto si trasforma e si muove. Colore, tanto colore, visione dall'alto e poi i primi segni dell'invasore, violento, imprigionatore, produttore di inquinamento e di scorie, di distruzione e deturpazione. L'uomo che guarda imbambolato le nuvole riflesse nelle finestre vetrate di un grattacielo. In un clima rarefatto lo sguardo si sposta su centinaia di automobili in marcia su gigantesche autostrade o in sosta in immensi parcheggi… e carrarmati tratti da un cinegiornale d'epoca. Ora la musica ha un'impennata corrispondente all'esplosione di cariche per la demolizione di edifici fatiscenti. E così si prosegue con quiete e ritmo accelerato, il fumo che si fa nuvola, la luce che diventa ombra, lo sfavillio dei cartelloni pubblicitari e di casinò grotteschi e dal pesante trucco che si fa sera, la luna che tramonta dietro la facciata di un edificio… Un crescendo di piani sequenza che porta al cuore del film, lungo e frenetico ventiquattro ore in città: traffico, folla prima sfocati poi in primo piano, sono abitanti dei gironi di un vero inferno urbano, tutto a indicare la degenerazione incalzante e ossessiva della vita urbana contemporanea alla quale è sottomesso l'uomo omologato, ripetitivo e serrato, come in una catena di montaggio.
Ora si salta bruscamente dalla velocità esasperata all'immobilità di microchips accumulati e accostati a riprese aeree di centri urbani. La musica fluida sblocca le scarne note fisse per gettarci su toni pacati e mesti, è una sequenza senza speranza, volti, voci e musica che sottolineano il divario tra la sofferenza, il pathos e la luminosità, lo strepito degli enormi grattacieli. È un fiume in piena che riporta al tema iniziale e sfocia senza soluzione di continuità nell'infinito precipitare di quel razzo e per ricongiungimento dell'ideale cerchio narrativo, profetico ed eterno, appaiono nuovamente le figure rupestri umanoidi.
Io sono schiacciata tra il pouf e il divano, ho ancora un dito di biondo nel bicchiere, Matteo è addormentato e Simone si è lanciato dopo la terza sezione sul gelato al pistacchio, la seconda superstite è Mirella. Lei è studentessa di tecniche cinematografiche e solo a lei avrei potuto girare un simile invito. Mi spiega il montaggio per attrazione, facendomi degli esempi con la similitudine letteraria. Sto a sentire ma ho difficoltà, a me ha 'attratto' a tratti… e penso fosse quello l'intento dell'autore. Il senso del crescendo è stato il 'tratto' che mi ha attratta maggiormente… concetto tarkovskijano quello di pressione temporale che mi riporta alla forte ritmicità musicale e di immagine, incalzante, esplosiva e concentrata alla Zabriskie Point.
Io sono d'accordo con l'autore, condanno fermamente la linea di sviluppo su cui l'umanità si è avviata… una strada lunga, trafficata, e forse senza uscita e allo stesso tempo sono affascinata e non posso che apprezzare gli aspetti più deteriori di questa occidentalità, ADERISCO insomma! È un'opera che vorrebbe esprimere ansia di libertà, di liberazione dalla perversione, ma che rimane immobile nella gabbia e alla fine assume la forma della gabbia.
Van Gogh dal manicomio aveva scritto una lettera: "... gli uomini sono spesso dei prigionieri e vagamente sentono, come succede a certi uccelli in gabbia, a primavera, che c’è qualcosa da fare: il nido, la covata, che è tempo di percorrere i cieli, eppure sentono di non poterlo fare, di essere legati da qualche dura impossibilità e invano continuano a battere la testa contro le sbarre della gabbia fino a impazzire di dolore..." e io di artisti che avrebbero voluto rompere quelle sbarre e hanno finito per adattarsi alla prigionia assumendo la forma alienante della gabbia stessa, uhhhh quanti ne ho visti e sentiti! (dal 1992 - Milano Ottobre)


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